SOCIO UNICO di S.R.L: ESTENSIONE del FALLIMENTO

Ci si chiede cosa accada nel caso di fallimento di una società a responsabilità limitata con socio unico nel caso che questi non abbia rispettato gli obblighi che la legge impone in merito alla pubblicità presso il registro delle imprese.

Come sappiamo, l’art. 147, co. 1, L.F. prevede che la sentenza dichiarativa di fallimento di una società che appartenga ad uno dei tipi regolati dai capi III (società in nome collettivo), IV (società in accomandita semplice) e VI (società in accomandita per azioni) del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili.

Dalla lettura di questo comma dunque resta esclusa l’estensione del fallimento della società a responsabilità limitata nel caso in cui vi sia un unico socio che non abbia adempiuto agli obblighi pubblicitari ai sensi degli articoli 2462 e 2470 del codice civile.

L’articolo 147, co.1, L.F è molto chiaro su quali siano i soggetti, nei confronti dei quali il fallimento della società ha ripercussioni, determinandone l’estensione e tra questi non vi sono i soci illimitatamente responsabili delle società di capitali.

L’estensione infatti è la conseguenza di una scelta dettata dall’appartenenza, ad una società nella quale, fin dalla costituzione, il socio ha inteso garantire, con il proprio patrimonio le obbligazioni della società nei confronti dei terzi: sappiamo che tendenzialmente i soci di una società di persone sono anche amministratori e rappresentanti della società e i loro atti impegnano sia la società che il patrimonio; impegnano inoltre anche gli altri soci, che rispondono illimitatamente con il patrimonio personale per i debiti cosiddetti sociali.

Nella società di capitali vi è invece una tendenziale irrilevanza della persona del socio, proprio perché egli non è responsabile per le obbligazioni sociali. Nel caso dunque fallisca una società a responsabilità limitata con socio unico, il curatore non potrà aggredire il patrimonio personale del socio, né dichiararne il fallimento in modo automatico; il socio resta certamente illimitatamente responsabile per i debiti contratti dalla società in solido con la stessa; egli in pratica è responsabile nei confronti dei creditori della società solo per il fatto di non avere posto in essere tutte le cautele che la legge attribuisce al socio che si trova ad essere l’unico di una società di capitali. I creditori della società e solo loro potranno infatti agire nei confronti del socio, non potendo di fatto il curatore che per il socio diviene un condebitore solidale.

E’ evidente che il creditore che dovesse aggredire il patrimonio personale del socio in questo caso, avrà una pretesa ridotta nei confronti della società. E questo, di fatto, è l’unico vantaggio per la procedura, che, come si evince dalla lettura degli articoli 61 e 62 L.F. in tema di creditore di coobbligati solidali, vedrà ridotti i propri debiti per effetto del soddisfacimento del terzo sul patrimonio del socio.

A cura di Silvia Cecconi

REQUISITO DI FALLIBILITA’: INDEBITAMENTO COMPLESSIVO dell’IMPRENDITORE

La recente Sentenza della Corte di Cassazione, sez. I, n. 601 del 12 gennaio 2017 affronta il tema del requisito di fallibilità previsto dall’articolo 1, co. 2, lett. c) L.F in merito al requisito dell’esposizione debitoria dell’imprenditore. Viene ribadito il concetto secondo il quale i presupposti per la valutazione della fallibilità di un soggetto devono basarsi sulla situazione complessiva dell’imprenditore, nella quale deve tenersi conto non solo dei debiti sorti e contabilizzati in bilancio, certi dunque nel loro ammontare, ma anche di quelli ulteriori, contestati in tutto e in parte e ancora non certi nel loro ammontare. Questo elemento, infatti, non impedisce all’imprenditore di includere posizioni debitorie non ancora certe nel loro ammontare perché oggetto di contestazione – tra i debiti della società – e ciò non solo ai fini di una rappresentazione veritiera e corretta del bilancio dell’esercizio, richiesta dall’articolo 2423 c.c., ma anche per l’individuazione dell’ammontare complessivo dell’indebitamento della società per la valutazione dei requisiti di fallibilità.  L’appostazione, come nel caso analizzato dalla Corte di Cassazione con la Sentenza 601/2017, di un fondo rischi e oneri iscritto in bilancio per la copertura di un debito probabile ma ancora non certo nell’ammontare, risponde ad un requisito di correttezza nella predisposizione del bilancio oltre che del rispetto di quanto previsto dai principio contabili (OIC 19) secondo il quale i fondi per rischi ed oneri accolgono gli accantonamenti destinati a coprire perdite o debiti aventi, alla chiusura dell’esercizio, le seguenti caratteristiche: natura determinata, esistenza certa o probabile, ammontare o data di sopravvenienza della passività indeterminati, ammontare della passività attendibilmente stimabile. E’ di tutta evidenza quindi, l’importanza, ai fini della determinazione dei requisiti dimensionali per essere assoggettati al fallimento, l’individuazione dell’esatto ammontare dei debiti dell’imprenditore, che dovrà tenere conto dunque, anche di passività certe nella manifestazione ma ancora incerte nel loro ammontare e questo anche nel rispetto di quanto richiesto dal Legislatore ai fini della predisposizione del bilancio d’esercizio.

A cura di Silvia Cecconi

FALLIMENTO – MISURE di PREVENZIONE ANTIMAFIA – COMPARABILITA’.

Come chiaramente espresso dalla Sentenza della Corte di Cassazione, Sezione I Civile, n. 608 del 12 gennaio 2017, la procedura di sequestro preventivo antimafia e quella di fallimento si fondano su presupposti differenti; il fallimento basa la propria ragione di esistenza sul concetto di insolvenza e ha requisiti soggettivi e oggettivi circoscritti ad un preciso ambito temporale, soprattutto legati alla mancata cessazione dell’attività imprenditoriale. Tra le ragioni che hanno portato al contenzioso vi è la supporta revoca del fallimento di una società, basata sul fatto che la misura di prevenzione aveva ad oggetto oltre alle quote della stessa, anche tutti i beni facenti parte del suo patrimonio, fatto questo che da solo avrebbe impedito la dichiarazione di fallimento. Come già rilevato in altre pronunce dalla Corte di Cassazione (Cass. 8238/2012, 1739/2014), la mancanza di una massa attiva da ripartire tra i creditori non può essere un ostacolo alla dichiarazione di fallimento, per il quale peraltro, l’articolo 118, co. 4, L.F., prevede al n.4, l’ipotesi di chiusura della procedura per mancanza di attivo. L’articolo 63, co. 6, del codice antimafia, approvato con Decreto Legislativo 6.9.2011, n.159, prevede la possibilità di chiudere il fallimento quando, tra i beni dell’attivo vi siano esclusivamente beni sottoposti a sequestro; altro principio simile a questo è ribadito dall’articolo 64, co. 7 dello stesso decreto, previsto in caso di sequestro o confisca sopravvenuti al fallimento. L’articolo 63, co. 1 del decreto 159 espressamente prevede che ” salva l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento assunta dal debitore o da uno o più creditori, il pubblico ministero, anche su segnalazione dell’amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, chiede al tribunale competente che venga dichiarato il fallimento dell’imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro o a confisca“. Il successivo comma 4 prevede che  “quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare“. Se invece il fallimento avviene prima del provvedimento di sequestro, allora il comma 1 dell’articolo 64 D.Lgs. 159/2011 interviene prevedendo la separazione dei beni con conseguente consegna degli stessi all’amministratore giudiziario. Ancora, l’articolo 65 del D.Lgs 159/2011 prevede che qualora la dichiarazione di fallimento sia successiva all’applicazione delle misure di prevenzione del controllo ovvero dell’amministrazione giudiziaria, la misura dei prevenzione cessi sui beni compresi nel fallimento. La cessazione è dichiarata dal Tribunale con ordinanza. Inoltre, nel caso in cui alla chiusura del fallimento vi siano beni sottoposti a misure di prevenzione, il Tribunale della prevenzione dispone con decreto l’applicazione delle misura sui beni medesimi, ove persistano esigenze di prevenzione. Come giustamente espresso con la Sentenza oggetto di commento:” le due procedure si fondano invero su presupposti differenti, tra cui – quanto al fallimento – l’insolvenza, i requisiti soggettivi temporalmente determinati, la non cessazione dell’attività: tutte circostanze il cui accertamento non è ripetibile identicamente ad epoche diverse, giudicandosi pertanto irrazionale una posticipazione della tutela dei creditori a fronte di un interesse pubblico che può nel frattempo divenire recessivo. Proprio tale considerazione, unitamente alla necessità di valutare la legittimità della dichiarazione di fallimento al momento in cui venne disposta, impongono di ripetere il principio ancorché nella fattispecie sia stata rappresentata dalle parti la sopravvenuta revoca della misura di prevenzione“.

 

A cura di Silvia Cecconi